martedì 7 agosto 2012

Imparare a discutere


Quando il 4 agosto ho appreso della scomparsa dell’architetto Renato Nicolini, i miei pensieri sono tornati al periodo in cui, analizzando le pagine de l’Unità pubblicate tra il novembre ’89 ed il febbraio ’91, ebbi modo di apprezzare la sua rubrica Notturno Rosso. Il mio modesto contributo al suo ricordo vuole essere la proposta, sulle pagine di questo blog, di alcuni brani del suo intervento del 1 dicembre 1989, un intervento che, a più di vent’anni di distanza, conserva a mio avviso immutata la sua attualità e la sua efficacia nei confronti di un panorama politico che non sembra aver mosso molti passi in avanti.


Proviamo a ripartire da Palombella Rossa. Che cosa mi è piaciuto di più in quel film? Il rifiuto della politica come «professionalità», sapere rispondere «correttamente» alle domande dei giornalisti cioè eluderle, entrare nel rifugio dei mass-media che esclude diversità e conflitto. Mi è piaciuta la rivendicazione della politica come scelta fatta liberamente.
La politica, più che come scelta di vita, farsi «rivoluzionario di professione», come una possibilità in più della vita, un diritto che dovrebbe essere offerto a tutti i cittadini. […]

La politica, posso ripetermi?, è un diritto che non può essere espropriato, esercitato unicamente dal Palazzo. I diritti debbono però essere rivendicati. È cosi che la politica come «professionalità», come «omologazione», quella politica che non può che vedere i comunisti perdenti, può cambiare le sue regole: perché cambiano quelli che la praticano. E' per questo che è urgente un rinnovamento della forma politica italiana, se posso usare questa espressione, così bloccata, così tagliata su misura per gli interessi di chi è già potente. Eh, già! ma questo rinnovamento può avvenire solo se chi ha voltato le spalle alla politica la sente come un diritto (quante ripetizioni!) e non come un sopruso; se decide di partecipare, esprimendo le proprie idee, i propri bisogni e desideri, in forma politica. Cosi la politica riprenderà a cantare. […]

Caro lettore, ti sarai accorto che non riesco a tenere il filo dei miei pensieri, che ho scritto un esordio tutto diverso da quello che avevo in mente? Avrai però intuito che volevo esprimere un certo disagio per il modo in cui il dibattito interno al Pci sta partendo. I comunisti italiani, dopo tanti anni nei quali la lealtà al Partito e la sua unità sono state le nostre bussole ed un po' anche il nostro porto sicuro debbono imparare a discutere ed a dividersi, senza sentire né il bisogno di mediare preventivamente la propria personale posizione, né la tentazione di aggiungere alla critica della posizione avversaria qualche aggettivo di troppo. Perché, credo, il fatto di militare nello stesso Partito dovrebbe consentirci di presupporre nell'altro la nostra stessa lealtà e dunque permetterci una discussione serena. Imparare a discutere, senza durezze inutili né autoritarismi di posizione, è importante: se l'obiettivo, comunque, è quello del rilancio del Partito comunista italiano, e non la sua liquidazione.
Questo significa il rispetto delle convinzioni e del linguaggio degli altri, della problematicità della situazione. Non è con la propaganda della svolta che ai fanno le svolte; come non è con il decisionismo che si affrettano davvero le decisioni.

Tratto da Renato Nicolini, Impariamo a discutere, l'Unità, 1 dicembre 1989.

lunedì 2 gennaio 2012

Gli struzzi

Il primo post di quest'anno trae spunto dall'articolo con cui Corrado Stajano ricorda oggi, sul Corriere della Sera, la straordinaria impresa culturale di Giulio Einaudi, nato a Torino il 2 gennaio 1912.
Se questo non è certo il luogo dove tributare l'ennesimo omaggio ad una casa editrice che ha pubblicato De Sanctis, Gobetti, Gramsci; che ha fatto conoscere agl'italiani Borges e Brecht, utilizzo questo spazio per inserirmi in una polemica che ha riguardato alcune case editrici in particolare (Einaudi, Mondadori e gli altri editori acquisiti da Berlusconi), e che rischia di allargarsi in generale ad altre forme di produzione culturale.
Chi scrive non è certo sospettabile di simpatie berlusconiane o mercatiste, ma devo confessare che non riesco a condividere l'atteggiamento di coloro i quali, in nome dell'antiberlusconismo o di qualsiasi ipocondria anticommerciale, rifiutano di acquistare libri editi da case editrici cadute sotto il controllo del Biscione.
Pur tralasciando il fatto ovvio che l'enorme bagaglio storico-culturale di Einaudi travalica felicemente e gloriosamente l'attuale parentesi berlusconiana, mi appaiono oscuri i motivi per i quali dovrei privarmi della lettura di Sciascia, di Calvino, di Primo Levi.
Mi si risponderà che si tratta di non foraggiare le già pingui casse dell'ex premier.
Credo, però, di poter replicare che in questo caso si rischia davvero di "buttar via il bambino con l'acqua sporca", e di creare, semmai, un danno più grande di quello che si vuole scongiurare.
Come è noto, parte non trascurabile dell'editoria, dei mezzi di comunicazione e di produzione culturale italiani, ha dovuto subire l'influenza della longa manus berlusconiana, spesso giunta beffardamente in articulo mortis. Allo stesso modo, chi volesse, per coerenza, evitare di acquistare prodotti reclamizzati dall'"Impero del Male", avrebbe serie difficoltà, secondo me, a fruire di molti servizi e beni di uso quotidiano.
Tornando al bambino e all'acqua sporca, credo che privarsi della lettura di un buon libro, porti paradossalmente nella direzione che per noi immagina chi della cultura sa fare solo mercato, quando non strame.

mercoledì 13 aprile 2011

Volonterosi carnefici

Capita spesso che da un buon libro venga tratto un buon film. Qualche volta un buon film viene utilizzato per l’edizione di un instant book, operazione commerciale dagli esiti abbastanza discutibili.

Accade a volte, invece, che la visione di un film restituisca allo spettatore il ricordo di un bel libro. E’ quello che mi è accaduto alcune sere fa, al termine di The reader, film ambientato nel secondo dopoguerra, in una Germania che fa i conti con le scorie venefiche del nazismo.

La protagonista, Hanna Schmitz, una ex sorvegliante in un campo di concentramento, analfabeta, vive una breve relazione con un giovane che ignora il suo passato, fino al giorno in cui la scopre imputata in un processo con altre ex sorveglianti.

L’interesse del film sta, a mio avviso, in un azzeccato parallelismo tra analfabetismo culturale e analfabetismo sentimentale che si risolve nell’ultima, asciutta frase della protagonista. Al termine della reclusione ventennale, in risposta alla domanda del giovane ormai diventato adulto circa le sue personali riflessioni sugli eventi tragici di cui si era resa complice, Hanna replica: «Ho imparato a leggere.»

Le pagine dedicate agli orrori dei campi di sterminio sono ovviamente innumerevoli, ma il mio ricordo di lettura è subito corso a I volonterosi carnefici di Hitler, di Daniel J. Goldhagen, un saggio che consiglio a chi voglia approfondire il ruolo dei cosiddetti tedeschi “comuni” nell’attuazione della “soluzione finale”.

sabato 5 marzo 2011

Approvvigionatori


No, decisamente non è stata una lettura facile. Semiotica e filosofia del linguaggio di Umberto Eco è una raccolta di saggi densa di concetti che, se risultano ostici allo specialista, rischiano di presentarsi completamente impermeabili a chi si avvicina da principiante agli studi filosofici.

Se è vero che “non avrai veramente capito una cosa finché non sarai in grado di spiegarla a tua nonna”, devo ammettere che avrei non poche difficoltà a parlare di questi saggi anche ad un lettore più avvertito di mia nonna. Terminare una pagina per constatare la necessità di riprenderne la lettura dalla prima riga è stata un’esperienza non infrequente, ma raccogliere i frutti di questa scansione lenta, accidentata e “forzatamente” meditata, mi ha ampiamente ricompensato.

Dovendo individuare la sezione che maggiormente ha incontrato i miei gusti di lettore (probabilmente perché meno peregrina rispetto alle mie limitate competenze in materia), sceglierei senza dubbio le pagine dedicate a Simbolo, metafora, allegoria. Pagine che, per chi avrà l’interesse di addentrarsi nella loro lettura, presentano, tra l’altro, un’interessante analisi di un sonetto del Cavalier Marino.

Il titolo di questo post, però, è giustificato dalla perenne attualità di una citazione che l’autore trae dalla Retorica di Aristotele e che, come sempre in questi casi, conferma l’immortalità di un pensiero attraverso i secoli, strumento di lettura, quindi, anche per la nostra epoca:

«[…] lo sapeva bene il filosofo quando lamentava che i pirati avessero ormai l’impudenza di definire se stessi approvvigionatori, e che il retore è abile nel chiamare crimine uno sbaglio o sbaglio un crimine. Basta ai pirati, pare, trovare un genere a cui la loro specie si accordi e manipolare un albero di Porfirio attendibile: è ‘reale’ che essi trasportano mercanzie per mare, come gli approvvigionatori. Ciò che è ‘derealizzante’ (ovvero ideologico) è selezionare quella fra tutte le proprietà che li caratterizzano e attraverso questa scelta farsi riconoscere

lunedì 22 novembre 2010

Fili intermentali

Questa settimana ritrovo con piacere Alessandro Bergonzoni, autore di una rubrica sul Venerdì di Repubblica, “Aprimi cielo”. Tentare di classificare o incasellare in una categoria Alessandro è quanto meno riduttivo, ma non mi sembra sbagliato considerarlo un vero e proprio “artigiano” della parola, un artista che ha fatto del sapientissimo uso del calembour la sua particolare cifra stilistica, che ho imparato a conoscere e ad apprezzare con Madornale 33, un suo spettacolo del 1999.

La rubrica di venerdì scorso affronta, naturalmente secondo il “metodo” Bergonzoni, i pensieri come «filo intermentale tra un’ansia e l’altra», in un immaginario dialogo tra medico e paziente. Eccone un estratto:

E per quanto riguarda il dolore?

Per tutto il tempo che lo guarda lei.

Ma il male quando passa?

Non ha un orario preciso e non fa fermate. Si metta sotto la pensilina e pensi: i pensieri sono come un filo intermentale, lo passi tra le fessure dell’ansia, tolga i resti dei rospi che ha mandato giù, i pensieri non sono problemi, son creature.

Ne ho una mandria.

Bivacchi con loro e li foraggi, poeticamente, pascoli. Ma si ricordi: l’intelligenza è diversa dal pensiero, una si ha, l’altro è lui che ti sceglie.

Come la rabbia e il cane?

Vedo che mi segue, ma spero anche che presto mi sorpassi sui paradossi, dove appunto non si sa chi stia arrivando dall’altra parte…

venerdì 12 novembre 2010

Se hai una montagna di neve, tienila all'ombra

Un blog dal nome “Ho letto”, non può non occuparsi della pur vexata quaestio circa il rapporto degli italiani con la lettura e, più in generale, con la cultura. Periodicamente, autorevoli ricerche raccontano di un paese nel quale il numero dei lettori continua a ridursi. Non mancano, d’altra parte, sondaggi che sostengono un’inversione di tendenza, soprattutto nelle fasce giovanili della popolazione.

L’aspetto secondo me più importante della questione, è stato affrontato dal bell’articolo di Edoardo Nesi apparso su Repubblica del 1 settembre 2010, Se tutti amano la cultura e nessuno legge un libro.

Nell’agosto 2009 l’autore ha percorso in lungo e in largo l’Italia per girare il nuovo film di Elisabetta Sgarbi, Se hai una montagna di neve, tienila all’ombra. L’idea del film consisteva nello svolgere una specie d’inchiesta non accademica e non statistica sullo stato della cultura in Italia. Si trattava di intervistare una gran quantità di persone per chiedere loro cosa fosse la cultura e cosa ne pensavano. Se leggevano, e cosa. A partire da Umberto Eco, fino alle ragazze che passeggiavano all’una di notte a Campo de’ Fiori; da un barcaiolo sul Po a Laura Morante.

La parte più interessante, ovviamente, arriva dalle risposte della cosiddetta “gente comune”: la cultura è importante, importantissima. Peccato che, quando veniva chiesto se leggevano, la risposta era quasi sempre no. L’importanza di questo film, credo, sta proprio nel rappresentare la mancanza d’imbarazzo delle persone nel raccontare che a leggere si annoiano, che non hanno tempo: «un documento sconfortante sull’irrilevanza della cultura nel formarsi delle più o meno libere opinioni della stragrande maggioranza delle persone.

Splendide eccezioni, quei meravigliosi vecchi che ogni tanto fanno capolino nel film, e che a dover confessare che non leggevano da decenni si vergognavano ed abbassavano gli occhi, ma poi di colpo sembravano come riscuotersi e si mettevano a recitare a memoria con lo sguardo fisso dentro la macchina da presa dozzine di terzine incatenate dal “Canto Quinto”, sdentati e sorridenti, per qualche attimo felici, ancora e sempre perdutamente innamorati del ricordo di un libro.»

giovedì 17 giugno 2010

Lady Oscar ci manchi

Chi scrive appartiene alla generazione cresciuta negli anni 80 con i cartoni giapponesi. Per questo motivo il post di oggi racconta l’articolo di Antonio Scurati, comparso su La Stampa del 5 giugno, Nei secoli fedele a Lady Oscar.

Non si tratta, è bene precisarlo, di una celebrazione della nostalgia di massa dell’infanzia televisiva perduta. Si vuole piuttosto analizzare, pur nei limiti di un breve articolo di giornale, l’impatto dei cartoni giapponesi in «un’Italia dominata dai film di Jerry Calà, dal disimpegno craxiano; […] l’epoca declinante del night […] e l’alba dei telefilm americani ostinatamente stupidi, del dio dell’intrattenimento e del consumo di storie».

Fu proprio nel mezzo di questo panorama, dominato dalla moda del paninaro, dalla pubblicità del Mulino Bianco e da Okilprezzoègiusto, che «irruppe la pura forza del racconto mitico dei cartoni giapponesi: L’uomo Tigre, Capitan Harlock, Lady Oscar, Ken il guerriero». Nella gravità di quelle storie, spesso atroci, c’era gente che moriva in combattimento, «[…] c’erano grandi tradimenti, forti passioni. I cartoni animati giapponesi furono gli unici prodotti di consumo per l’infanzia capaci di affrontare questioni morali fondamentali.

Quegli eroi […] offrivano conflitti psicologici seri, drammi edificanti, passioni erotiche travolgenti, tutto quello che il merchandising sull’infanzia nato proprio negli anni 80 impediva di provare a un bambino. Lady Oscar non era la Barbie. Quei cartoni morivano, quei cartoni soffrivano, provavano desideri carnali e passioni ideali. Come i bambini, quei cartoni erano capaci di sentimenti, e per questo sanguinavano, lottavano, si tagliavano.

I manga giapponesi diventarono così, negli anni 80, ultimo albergo dell’anima infantile, e restituirono all’infanzia la sua sconfinata tristezza. Il sentimento più sacro e intoccabile provato dai bambini».