Ho letto
martedì 7 agosto 2012
Imparare a discutere
lunedì 2 gennaio 2012
Gli struzzi
mercoledì 13 aprile 2011
Volonterosi carnefici
Capita spesso che da un buon libro venga tratto un buon film. Qualche volta un buon film viene utilizzato per l’edizione di un instant book, operazione commerciale dagli esiti abbastanza discutibili.
Accade a volte, invece, che la visione di un film restituisca allo spettatore il ricordo di un bel libro. E’ quello che mi è accaduto alcune sere fa, al termine di The reader, film ambientato nel secondo dopoguerra, in una Germania che fa i conti con le scorie venefiche del nazismo.
La protagonista, Hanna Schmitz, una ex sorvegliante in un campo di concentramento, analfabeta, vive una breve relazione con un giovane che ignora il suo passato, fino al giorno in cui la scopre imputata in un processo con altre ex sorveglianti.
L’interesse del film sta, a mio avviso, in un azzeccato parallelismo tra analfabetismo culturale e analfabetismo sentimentale che si risolve nell’ultima, asciutta frase della protagonista. Al termine della reclusione ventennale, in risposta alla domanda del giovane ormai diventato adulto circa le sue personali riflessioni sugli eventi tragici di cui si era resa complice, Hanna replica: «Ho imparato a leggere.»
Le pagine dedicate agli orrori dei campi di sterminio sono ovviamente innumerevoli, ma il mio ricordo di lettura è subito corso a I volonterosi carnefici di Hitler, di Daniel J. Goldhagen, un saggio che consiglio a chi voglia approfondire il ruolo dei cosiddetti tedeschi “comuni” nell’attuazione della “soluzione finale”.
sabato 5 marzo 2011
Approvvigionatori
No, decisamente non è stata una lettura facile. Semiotica e filosofia del linguaggio di Umberto Eco è una raccolta di saggi densa di concetti che, se risultano ostici allo specialista, rischiano di presentarsi completamente impermeabili a chi si avvicina da principiante agli studi filosofici.
Se è vero che “non avrai veramente capito una cosa finché non sarai in grado di spiegarla a tua nonna”, devo ammettere che avrei non poche difficoltà a parlare di questi saggi anche ad un lettore più avvertito di mia nonna. Terminare una pagina per constatare la necessità di riprenderne la lettura dalla prima riga è stata un’esperienza non infrequente, ma raccogliere i frutti di questa scansione lenta, accidentata e “forzatamente” meditata, mi ha ampiamente ricompensato.
Dovendo individuare la sezione che maggiormente ha incontrato i miei gusti di lettore (probabilmente perché meno peregrina rispetto alle mie limitate competenze in materia), sceglierei senza dubbio le pagine dedicate a Simbolo, metafora, allegoria. Pagine che, per chi avrà l’interesse di addentrarsi nella loro lettura, presentano, tra l’altro, un’interessante analisi di un sonetto del Cavalier Marino.
Il titolo di questo post, però, è giustificato dalla perenne attualità di una citazione che l’autore trae dalla Retorica di Aristotele e che, come sempre in questi casi, conferma l’immortalità di un pensiero attraverso i secoli, strumento di lettura, quindi, anche per la nostra epoca:
«[…] lo sapeva bene il filosofo quando lamentava che i pirati avessero ormai l’impudenza di definire se stessi approvvigionatori, e che il retore è abile nel chiamare crimine uno sbaglio o sbaglio un crimine. Basta ai pirati, pare, trovare un genere a cui la loro specie si accordi e manipolare un albero di Porfirio attendibile: è ‘reale’ che essi trasportano mercanzie per mare, come gli approvvigionatori. Ciò che è ‘derealizzante’ (ovvero ideologico) è selezionare quella fra tutte le proprietà che li caratterizzano e attraverso questa scelta farsi riconoscere.»
lunedì 22 novembre 2010
Fili intermentali
Questa settimana ritrovo con piacere Alessandro Bergonzoni, autore di una rubrica sul Venerdì di Repubblica, “Aprimi cielo”. Tentare di classificare o incasellare in una categoria Alessandro è quanto meno riduttivo, ma non mi sembra sbagliato considerarlo un vero e proprio “artigiano” della parola, un artista che ha fatto del sapientissimo uso del calembour la sua particolare cifra stilistica, che ho imparato a conoscere e ad apprezzare con Madornale 33, un suo spettacolo del 1999.
La rubrica di venerdì scorso affronta, naturalmente secondo il “metodo” Bergonzoni, i pensieri come «filo intermentale tra un’ansia e l’altra», in un immaginario dialogo tra medico e paziente. Eccone un estratto:
E per quanto riguarda il dolore?
Per tutto il tempo che lo guarda lei.
Ma il male quando passa?
Non ha un orario preciso e non fa fermate. Si metta sotto la pensilina e pensi: i pensieri sono come un filo intermentale, lo passi tra le fessure dell’ansia, tolga i resti dei rospi che ha mandato giù, i pensieri non sono problemi, son creature.
Ne ho una mandria.
Bivacchi con loro e li foraggi, poeticamente, pascoli. Ma si ricordi: l’intelligenza è diversa dal pensiero, una si ha, l’altro è lui che ti sceglie.
Come la rabbia e il cane?
Vedo che mi segue, ma spero anche che presto mi sorpassi sui paradossi, dove appunto non si sa chi stia arrivando dall’altra parte…
venerdì 12 novembre 2010
Se hai una montagna di neve, tienila all'ombra
Un blog dal nome “Ho letto”, non può non occuparsi della pur vexata quaestio circa il rapporto degli italiani con la lettura e, più in generale, con la cultura. Periodicamente, autorevoli ricerche raccontano di un paese nel quale il numero dei lettori continua a ridursi. Non mancano, d’altra parte, sondaggi che sostengono un’inversione di tendenza, soprattutto nelle fasce giovanili della popolazione.
L’aspetto secondo me più importante della questione, è stato affrontato dal bell’articolo di Edoardo Nesi apparso su Repubblica del 1 settembre 2010, Se tutti amano la cultura e nessuno legge un libro.
Nell’agosto 2009 l’autore ha percorso in lungo e in largo l’Italia per girare il nuovo film di Elisabetta Sgarbi, Se hai una montagna di neve, tienila all’ombra. L’idea del film consisteva nello svolgere una specie d’inchiesta non accademica e non statistica sullo stato della cultura in Italia. Si trattava di intervistare una gran quantità di persone per chiedere loro cosa fosse la cultura e cosa ne pensavano. Se leggevano, e cosa. A partire da Umberto Eco, fino alle ragazze che passeggiavano all’una di notte a Campo de’ Fiori; da un barcaiolo sul Po a Laura Morante.
La parte più interessante, ovviamente, arriva dalle risposte della cosiddetta “gente comune”: la cultura è importante, importantissima. Peccato che, quando veniva chiesto se leggevano, la risposta era quasi sempre no. L’importanza di questo film, credo, sta proprio nel rappresentare la mancanza d’imbarazzo delle persone nel raccontare che a leggere si annoiano, che non hanno tempo: «un documento sconfortante sull’irrilevanza della cultura nel formarsi delle più o meno libere opinioni della stragrande maggioranza delle persone.
Splendide eccezioni, quei meravigliosi vecchi che ogni tanto fanno capolino nel film, e che a dover confessare che non leggevano da decenni si vergognavano ed abbassavano gli occhi, ma poi di colpo sembravano come riscuotersi e si mettevano a recitare a memoria con lo sguardo fisso dentro la macchina da presa dozzine di terzine incatenate dal “Canto Quinto”, sdentati e sorridenti, per qualche attimo felici, ancora e sempre perdutamente innamorati del ricordo di un libro.»
giovedì 17 giugno 2010
Lady Oscar ci manchi
Chi scrive appartiene alla generazione cresciuta negli anni 80 con i cartoni giapponesi. Per questo motivo il post di oggi racconta l’articolo di Antonio Scurati, comparso su La Stampa del 5 giugno, Nei secoli fedele a Lady Oscar.
Non si tratta, è bene precisarlo, di una celebrazione della nostalgia di massa dell’infanzia televisiva perduta. Si vuole piuttosto analizzare, pur nei limiti di un breve articolo di giornale, l’impatto dei cartoni giapponesi in «un’Italia dominata dai film di Jerry Calà, dal disimpegno craxiano; […] l’epoca declinante del night […] e l’alba dei telefilm americani ostinatamente stupidi, del dio dell’intrattenimento e del consumo di storie».
Fu proprio nel mezzo di questo panorama, dominato dalla moda del paninaro, dalla pubblicità del Mulino Bianco e da Okilprezzoègiusto, che «irruppe la pura forza del racconto mitico dei cartoni giapponesi: L’uomo Tigre, Capitan Harlock, Lady Oscar, Ken il guerriero». Nella gravità di quelle storie, spesso atroci, c’era gente che moriva in combattimento, «[…] c’erano grandi tradimenti, forti passioni. I cartoni animati giapponesi furono gli unici prodotti di consumo per l’infanzia capaci di affrontare questioni morali fondamentali.
Quegli eroi […] offrivano conflitti psicologici seri, drammi edificanti, passioni erotiche travolgenti, tutto quello che il merchandising sull’infanzia nato proprio negli anni 80 impediva di provare a un bambino. Lady Oscar non era la Barbie. Quei cartoni morivano, quei cartoni soffrivano, provavano desideri carnali e passioni ideali. Come i bambini, quei cartoni erano capaci di sentimenti, e per questo sanguinavano, lottavano, si tagliavano.
I manga giapponesi diventarono così, negli anni 80, ultimo albergo dell’anima infantile, e restituirono all’infanzia la sua sconfinata tristezza. Il sentimento più sacro e intoccabile provato dai bambini».