mercoledì 13 aprile 2011

Volonterosi carnefici

Capita spesso che da un buon libro venga tratto un buon film. Qualche volta un buon film viene utilizzato per l’edizione di un instant book, operazione commerciale dagli esiti abbastanza discutibili.

Accade a volte, invece, che la visione di un film restituisca allo spettatore il ricordo di un bel libro. E’ quello che mi è accaduto alcune sere fa, al termine di The reader, film ambientato nel secondo dopoguerra, in una Germania che fa i conti con le scorie venefiche del nazismo.

La protagonista, Hanna Schmitz, una ex sorvegliante in un campo di concentramento, analfabeta, vive una breve relazione con un giovane che ignora il suo passato, fino al giorno in cui la scopre imputata in un processo con altre ex sorveglianti.

L’interesse del film sta, a mio avviso, in un azzeccato parallelismo tra analfabetismo culturale e analfabetismo sentimentale che si risolve nell’ultima, asciutta frase della protagonista. Al termine della reclusione ventennale, in risposta alla domanda del giovane ormai diventato adulto circa le sue personali riflessioni sugli eventi tragici di cui si era resa complice, Hanna replica: «Ho imparato a leggere.»

Le pagine dedicate agli orrori dei campi di sterminio sono ovviamente innumerevoli, ma il mio ricordo di lettura è subito corso a I volonterosi carnefici di Hitler, di Daniel J. Goldhagen, un saggio che consiglio a chi voglia approfondire il ruolo dei cosiddetti tedeschi “comuni” nell’attuazione della “soluzione finale”.

sabato 5 marzo 2011

Approvvigionatori


No, decisamente non è stata una lettura facile. Semiotica e filosofia del linguaggio di Umberto Eco è una raccolta di saggi densa di concetti che, se risultano ostici allo specialista, rischiano di presentarsi completamente impermeabili a chi si avvicina da principiante agli studi filosofici.

Se è vero che “non avrai veramente capito una cosa finché non sarai in grado di spiegarla a tua nonna”, devo ammettere che avrei non poche difficoltà a parlare di questi saggi anche ad un lettore più avvertito di mia nonna. Terminare una pagina per constatare la necessità di riprenderne la lettura dalla prima riga è stata un’esperienza non infrequente, ma raccogliere i frutti di questa scansione lenta, accidentata e “forzatamente” meditata, mi ha ampiamente ricompensato.

Dovendo individuare la sezione che maggiormente ha incontrato i miei gusti di lettore (probabilmente perché meno peregrina rispetto alle mie limitate competenze in materia), sceglierei senza dubbio le pagine dedicate a Simbolo, metafora, allegoria. Pagine che, per chi avrà l’interesse di addentrarsi nella loro lettura, presentano, tra l’altro, un’interessante analisi di un sonetto del Cavalier Marino.

Il titolo di questo post, però, è giustificato dalla perenne attualità di una citazione che l’autore trae dalla Retorica di Aristotele e che, come sempre in questi casi, conferma l’immortalità di un pensiero attraverso i secoli, strumento di lettura, quindi, anche per la nostra epoca:

«[…] lo sapeva bene il filosofo quando lamentava che i pirati avessero ormai l’impudenza di definire se stessi approvvigionatori, e che il retore è abile nel chiamare crimine uno sbaglio o sbaglio un crimine. Basta ai pirati, pare, trovare un genere a cui la loro specie si accordi e manipolare un albero di Porfirio attendibile: è ‘reale’ che essi trasportano mercanzie per mare, come gli approvvigionatori. Ciò che è ‘derealizzante’ (ovvero ideologico) è selezionare quella fra tutte le proprietà che li caratterizzano e attraverso questa scelta farsi riconoscere