giovedì 17 giugno 2010

Lady Oscar ci manchi

Chi scrive appartiene alla generazione cresciuta negli anni 80 con i cartoni giapponesi. Per questo motivo il post di oggi racconta l’articolo di Antonio Scurati, comparso su La Stampa del 5 giugno, Nei secoli fedele a Lady Oscar.

Non si tratta, è bene precisarlo, di una celebrazione della nostalgia di massa dell’infanzia televisiva perduta. Si vuole piuttosto analizzare, pur nei limiti di un breve articolo di giornale, l’impatto dei cartoni giapponesi in «un’Italia dominata dai film di Jerry Calà, dal disimpegno craxiano; […] l’epoca declinante del night […] e l’alba dei telefilm americani ostinatamente stupidi, del dio dell’intrattenimento e del consumo di storie».

Fu proprio nel mezzo di questo panorama, dominato dalla moda del paninaro, dalla pubblicità del Mulino Bianco e da Okilprezzoègiusto, che «irruppe la pura forza del racconto mitico dei cartoni giapponesi: L’uomo Tigre, Capitan Harlock, Lady Oscar, Ken il guerriero». Nella gravità di quelle storie, spesso atroci, c’era gente che moriva in combattimento, «[…] c’erano grandi tradimenti, forti passioni. I cartoni animati giapponesi furono gli unici prodotti di consumo per l’infanzia capaci di affrontare questioni morali fondamentali.

Quegli eroi […] offrivano conflitti psicologici seri, drammi edificanti, passioni erotiche travolgenti, tutto quello che il merchandising sull’infanzia nato proprio negli anni 80 impediva di provare a un bambino. Lady Oscar non era la Barbie. Quei cartoni morivano, quei cartoni soffrivano, provavano desideri carnali e passioni ideali. Come i bambini, quei cartoni erano capaci di sentimenti, e per questo sanguinavano, lottavano, si tagliavano.

I manga giapponesi diventarono così, negli anni 80, ultimo albergo dell’anima infantile, e restituirono all’infanzia la sua sconfinata tristezza. Il sentimento più sacro e intoccabile provato dai bambini».

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